La casa era grande, tre appartamenti sovrapposti, piu cantine e soffitte. Ogni famiglia aveva il suo, giardino. Anche le case attorno erano abitate da una o piu famiglie con alcuni bambini o ragazzi, e la strada nelle ore di luce era un grande campo di gioco comune.
Non era pericoloso perché in tutto il lido fino alla fine della guerra esistevano quattro carrozze a cavalli, una o forse due auto pubbliche e la moto del dottor Balarin. La strada era ideale per andare in bici, per giocare a calcio, a nascondersi, a boalta, ai quattro cantoni, al nonno cocon, all’ultimo libera tutti, ma il piu bello perche coinvolgeva dai piccolissimi ai liceali era guardia e ladri. Adri era spesso l’animatrice di queste interminabili partite che terminavano coi richiami dell’ora di cena.
Allora qualcuno diceva: -Speriamo che suoni l’allarme che ci troviamo in cantina.-
Il papà aveva rafforzato la nostra cantina con travi di legno e sacchi di sabbia perché non voleva che andassimo nel rifugio collettivo. Temeva che in caso di una bomba che ostruisse l’uscita o per momenti di panico si corresse un pericolo maggiore. Di notte anche i vicini preferivano questo piccolo rifugio: c’erano delle sedie e delle damigiane, sulle sedie sedevano le mamme e le damigiane erano per noi bambini. Al suono della sirena, venivamo svegliati, in inverno indossavamo calze e pantofole, golf e cappotti, e tenendo protetta con la mano la fiamma di una candela, scendevamo in cantina.
Le mamme pregavano, mentre noi giocavamo e chiacchieravamo, qualcuno racontava anche delle storie, era bellissimo. A volte la sirena del cessato allarme ci coglieva gia addormentati e i genitori ci portavano a letto in braccio. Io speravo che un giorno qualcuno si sbagliasse e si sarebbe andati tutti a dormire assieme, e forse si poteva diventare una unica grossa famiglia ; avrei finalmente potuto dividere il letto e i segreti con Mita che aveva solo un anno piu di me.
Durante la guerra non si potevano accendere le luci e tutte le finestre erano oscurate da carta blu o da tele blu che venivano appese ogni sera, al tramonto, perché gli aerei non scorgessero le luci e bombardassero le case.
Anche per la strada non c’erano luci, certe lampadine sotto i piatti di ferro erano pitturate di blu che quasi non si vedevano. Era frequente restare al buio per l’oscuramento, per danni alla rete elettrica, le scale erano al buio anche di giorno per i vetri oscurati.
Presto imparai a contare, procedendo a braccia tese per afferrare la ringhiera: dal portone sei passi ma un poco a sinistra per arrivare alla prima rampa breve, il corrimano troppo alto che si incurvava per ‘eleganza’. Non si era mai sicuri di essere arrivati giusti: a destra c’era la scala della cantina senza ringhiera, un buco in cui avevo il terrore di precipitare. Cinque scaalini poi quattro scalini, poi otto poi uno, poi ancora uno, dove c’erano le piante che avevano solo foglie verdi, poi altri otto. Poi bisognava lasciare laringhiera e buttarsi due o tre passi avanti e bussare alla porta di casa.
Vincere la paura del buio era importante per giocare coi grandi.
Quando seppero che non avevo piu tanta paura profittarono per appiopparmi alcuni doveri; andare a prendere la posta, recuperare una cosa caduta dalla finestra, chiedere un favore alla vicina.
L’ultimo anno di guerra Francesco ed io andavamo quasi ogni pomeriggio a giocare dai cugini che per la guerra erano venuti via da Monfalcone e così avevano compagnia. A volte venivano loro da noi, ma i fratelli grandi che studiavano si sentivano disturbati dai nostri giochi.
Nelle sere d’inverno, il buio era tanto che quando andavamo coi fratelli maggiori in strada il buio era totale e se non c’era la luna si dovevano contare gli alberi, o toccare le recinzioni dei giardini per sapere a che punto si era della strada.
A volte avevamo il permesso di usare le torce a dinamo, che funzionavano con una cremagliera che faceva girare un meccanismo e produceva una piccolissima luce, accompagnata da un rumore: ghssz, ghszz, ghssz. Nelle sere di nebbia era bellissimo, pareva di essere completamente ciechi e di essere perduti, chiusi dentro l’alone di luce della dinamo. Dagli Stacul si facevano belle merende, la loro mamma Lidia faceva il pane e aveva la farina bianca e burro e in cantina molte salsicce che noi neanche ci sognavamo.
La maestra che aveva la mania dei proverbi ci spiegò ‘ Ci sono più giorni che luganega” ed io che la contraddicevo ogni volta che potevo, dissi; - No! In casa Stacul ci sono più luganeghe che giorni.-
Per questo presi una sgridata terribile: avevo sei anni e non sapevo niente di quanto era proibito in tempo di guerra. La maestra lo riferí alla mamma e alla mamma di Marina- e mi predicarono che ero chiacchierona e potevo essere causa di grossi guai, che qualcuno facesse la spia, tutto il cibo prodotto doveva essere consegnato all’ammasso . Io capivo poco tutti questi misteri, mi portarono ad esempio una bambina che mi pareva stupida e che qualsiasi cosa le chiedessero persone che non fossero i genitori , diceva “non so”, e così non metteva in pericolo la vita dei familiari.
In quegli anni duri c’erano infatti persone nascoste in certe case, cosî saper mentire era diventata una virtu
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1 commento:
Hai mai pensato di scrivere un libro?
Hai un modo di raccontare che ti incolla al video!
Un bacione!
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