18 mag 2009

Francesco

Francesco era nato il 10 di gennaio 1941. La mamma raccontava che tutta la notte suonarono le sirene degli allarmi, poi il bombardamento di Treviso, la laguna illuminata da palloni luminosi e da fuochi di guerra. I rumori degli aerei e gli scoppi lontani. Intanto in casa gli adulti erano svegli per l’inizio del parto. In me si sommarono sensazioni confuse, di pericolo, di gioia, di ansia; non capivo cosa succedesse, dagli adulti mi giungevano segnali contradditori ed allarmanti. Cosí quando il fratellino nuovo fu presentato a tutti noi, io rimasi in preda al panico, non vidi che bianco. Avevo due anni e nove mesi.
Ero amata coccolata e centro dell’attenzione di tutti, iniziai a sentire gelosia e paura nei confronti di Francesco. Mi regalarono un bambolo grande come lui, lo chiamai Frangello, come tutti i maschi di casa iniziava con ‘F’ Gli prodigai tutte le cure materne che vedevo praticare al fratello, e coi lavaggi vigorosi anche la cartapesta della testa di Frangello iniziò a screpolarsi e a manifestare qualcosa di molto simile alla crosta lattea di Francesco.
Un giorno Frangello morì e lo sepellii nell’orto. Iniziai ad avere degli incubi notturni: campanellini d’argento annunciavano l’arrivo di scheletrini fosforescenti, come quelli dei libri di scienze dei fratelli, ed erano tanti e tanti, tutti in fila correvano tintinnando come il sonaglio della culla di Francesco, venivano per picchiarmi. Mi svegliavo dalla paura e Aurelia, che aveva dieci undici anni, mi prendeva nel suo letto, mi faceva parlare della cosa spaventosa “i CECHI” e mi calmava . Anche di giorno avevo paura degli scheletri del sogno e nessuno poteva nominare “ciechi” o “Cecco”o "Cecio" come chiamavano Francesco, perché mi prendeva il panico.
La gelosia per Francesco mi fece soffrire a lungo, lui mangiava delle pappe diverse da me, lui era il cocco di Anita, la donna di servizio, cresceva e mi pareva godesse di privilegi esagerati, sopra tutto mi seccava che lui fosse assolto di ogni colpa commessa assieme, per il fatto di essere più piccolo di me. Giocando assieme ci accadeva di litigare e lui mi afferrava per i capelli, avevo un fiocco in testa che legava un bel ciuffo al centro della testa e nelle liti diventava un pratico manico con cui lui mi tirava la testa. Io lo afferravo per le due orecchie che parevano i manici di una pignatta, e ci scrollavamo violentemente. A volte lui mi mordeva, forse lo facevo anch’io, ma ricordo un suo morso ad un braccio, mi colo' del sangue che usciva dalla manica del grembiule fino alla mano. Corsi a mostrarlo alla mamma decisa ad avere giustizia, ma lei ci mise in castigo entrambi. Ogni volta che litigavamo ci veniva raccontato che Aurelia e Franco da piccoli non si picchiavano mai, al più si mostravano i pugni chiusi e poi si voltavano le spalle e piangevano . Loro giocavano a “Gino e Maria” i genitori, noi giocavamo a battaglie, a navi di bucce d’arancia, a palline di fragna soldati, a ‘cimbali’; tutto finiva a botte! Eravamo in tempo di guerra.
Visto che non era conveniente prendere castighi, da più grandi imparammo a dire che non stavamo litigando, ma che facevamo la lotta e questo fu l’inizio di una sempre più stretta solidarietà fra noi, che ci difendeva dai grandi e ci apriva delle opportunità di emancipazione.

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