17 mag 2009

io -infanzia

L’infanzia
1938, sono nata il 21 aprile, il sole entrava nella costellazione del Toro, segno di terra, e forse per questo sono rimasta sempre terra terra nelle mie realizzazioni. Sono nata all’alba delle cinque.
La mamma aveva già sei figli, i più piccoli, Franco di sei anni ed Aurelia di sette. Il travaglio fu breve e nacqui velocemente, lei disse che ad ogni figlio che le nasceva il travaglio era stato sempre più rapido, tanto da rischiare di farci nascere per strada.
Le nascite per lei furono sempre una festa, pure se i figli erano già tanti, pure se lo stipendio uno solo; solo la gravidanza avuta tra Franco e me, che s’interruppe spontaneamente, fu per lei una dura prova di dolore, di depressione, di fatica e di debilitazione, un ricordo vivo quando ne parló decine di anni dopo.
Nascere in aprile, nascere col sole, con la primavera, dà una spinta vitale che non si perde più.
I fratelli già grandi sentirono il mio arrivo come un dono per loro, una possibilità di sperimentare le prime cure, tenere tra le braccia un cucciolo d’uomo, cambiarmi, lavarmi, aiutare la mamma nelle mille cose che un neonato richiede, e poi sempre fui la bambola di maschi e femmine di casa. Mi imboccarono, mi insegnarono a cammnare, a parlare, a giocare, a fare ginnastica, a correre e perfino a nuotare. Ero coinvolta nella loro vita e imparavo le cose senza sforzo, per il gioco di vivere che essi mi insegnavano, erano sei genitori piuttosto rudi ed inesperti ma divertenti.
Per questo motivo imparai a leggere e scrivere a quattro anni, perché volevo fare i compiti come i fratelli; farmi leggere i libri di scuola, le scienze, le poesie, era la mia gioia e loro imparavano meglio insegnandomi quello che appena cominciavano a sapere.
Il ricordo più antico che ho è una sensazione di benessere del mio corpo morbidamente accolto dalle braccia di mia mamma, in una luce fortissima, forse in estate sulla spiaggia, io sono molto piccola e la mia testa e' all'ombra del grande cappello di tela bianca. La mamma in estate usava per sé e per noi dei cappelli di piquè bianco, con la cupola a spicchi e la grande ala inamidata, che riparava dal sole di luglio.
Il secondo ricordo è lo stesso bianco. Un grande bianco come una nuvola, che fui costretta a guardare. Tutti attorno erano eccitati e qualcuno mi afferrò alla vita e mi tenne sospesa sopra quella nuvola di veli bianchi, e mi gridavano ‘el fradeeto, varda el fradeeto’ ed io ebbi angoscia e paura. Non vidi che il bianco accecante, non sentii che la pericolosa posizione in cui ero tenuta sospesa, su quel bianco che era come un baratro; tutta l’eccitazione della casa fu segno di pericolo: Era nato Francesco.

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